IL RITORNO SUGLI SCHERMI CON
«IL CORPO DELL’ANIMA»
Piscicelli: «Così racconto il tormento e l’estasi della passione d’amore»
Oscar CosulicH
Roma. In una saletta di post-produzione, Salvatore Piscicelli sta controllando gli ultimi particolari del suono digitale di «Il corpo dell’anima», il film che segna il suo ritorno alla regia cinematografica, dopo una lunga pausa cominciata nel 1992, quando diresse il controverso «Baby Gang». Da allora, il regista napoletano aveva abbandonato il grande schermo a favore di un altro antico amore, la letteratura, pubblicando la raccolta di racconti «Baby Gang» e il giallo «La neve a Napoli», edito con buon successo nel 1996. È un buon momento, intenso, per l’autore di «Immacolata e Concetta» e «Blues Metropolitano»: ha appena prodotto il film d’esordio di Carla Apuzzo, la sua cosceneggiatrice abituale, «Rose e pistole», che sarà presentato al prossimo Forum della Berlinale e sembra intenzionato a gettarsi nuovamente nella mischia cinematografica.
Che cosa racconta «Il corpo dell’anima», Piscicelli?
«Mi piace definirlo un melò tantrico, la storia di un amore per così dire contronatura, un po’ come succedeva in ”Immacolata e Concetta”, o in ”Regina”, tra il sessantaquattrenne scrittore Ernesto, magnificamente interpretato dal grande Roberto Herlitzka, un attore a mio avviso sfruttato troppo poco dal nostro cinema, e la ventiduenne Luana (interpretata dall’esordiente Raffaella Ponzo), che dovrebbe fargli da cameriera ma finisce col sedurlo».
Qual è l’aspetto «tantrico» della vicenda?
«La sensualità, secondo le filosofie orientali, è una delle vie per raggiungere l’illuminazione. Nel film Ernesto studia la vita di Teresa d’Avila, per trarne una sceneggiatura cinematografica. Io gli faccio raccontare in prima persona il parallelo tra l’estasi mistica della santa e il tormento e l’estasi che gli procura la puttana, la ragazza che gli sconvolge la vita. Solo così, alla fine, Ernesto potrà maturare, liberarsi del suo egoismo, vincere l’aridità che aveva ucciso in lui ogni sentimento. Il suo è un viaggio di maturazione spirituale che si compie attraverso l’unico punto d’incontro possibile tra un uomo ricco, colto e anziano come lui, con una giovane donna, povera e ignorante: è un dialogo erotico, in cui la ragazza rovescia i ruoli e conduce la danza».
È stato difficile trovare la sua Luana?
«Ho iniziato a girare il film in ottobre, per sette settimane (sei a Roma e una a Ischia), ma ho iniziato le interviste alle ragazze già nel gennaio scorso, facendo poi i provini a luglio. Ho incontrato personalmente circa 300 aspiranti al ruolo, perché non delego a nessuno questo tipo di lavoro, poi ho fatto i provini a 40 di loro. Raffaella si è dimostrata perfetta: è una ragazza di Cinecittà, finora aveva solo fatto comparsate e foto di nudo, ma con queste si è pagata gli studi e sta per laurearsi in antropologia. Ha un corpo di donna e una voce da ragazzina, il mélange perfetto per la parte».
Com’è stata l’interazione tra i due protagonisti?
«Roberto e Raffaella, in qualche modo, ripropongono nella vita le caratteristiche dei loro personaggi. Uno così misurato ed elegante, l’altra irruenta, sensuale ma anche un po’ goffa. Roberto è stato di grande aiuto per Raffaella, le ha permesso di sentirsi a suo agio nello sforzo di recitare e lei, dal canto suo, era così naturale nelle scene erotiche da permettergli di superare in scioltezza i momenti più scabrosi».
L’erotismo non ha vita facile nel nostro Paese, tanto che un film come «Idioti» di Lars Von Trier è stato censurato in alcune sequenze. La cosa la preoccupa?
«Questo è uno dei grandi problemi che i registi italiani dovrebbero avere il coraggio di risolvere. Da noi vige la schiavitù del diritto d’antenna e per questo ci si appiattisce su standard televisivi, cioè la negazione stessa dello specifico cinematografico. Il mio film, evidentemente, sarà vietato ai minori, ho avuto la libertà di girarlo come volevo, senza preoccuparmi di altra censura che quella del mio gusto personale. È ora che il cinema riscopra il suo spirito libertario e che ricominci a osare. Mi piace molto il manifesto Dogma dei registi danesi come Von Trier, è una grande idea per riconquistare la purezza delle origini, abbandonando gli artifici narrativi, tanto che penso di girare il prossimo film con una telecamera digitale leggera, rispettando il dogma per raccontare tre storie di donne a Roma: una volta abolita la post-produzione, le luci, la musica, rimane solo l’idea e quindi la creatività».
Niente più cinema tradizionale allora?
«Una cosa non esclude l’altra: sto già lavorando alle sceneggiature di altri due film, di cui uno è addirittura in costume. Il cinema è da sempre merce e poesia, popolare e colto. Se ami il melò i maestri sono Chaplin e Douglas Sirk, se ami Welles non per questo devi rifiutare Totò: è come la fusione tra il corpo della santa e quello della puttana di ”Il corpo dell’anima”, sono inscindibili».