“Il corpo dell’anima”, Piscicelli sette anni dopo
Michele Anselmi
Il corpo è quello di Luana, borgatara e sensuale; l’anima è quella di Teresa d’Avila, grande mistica sulla cui Estasi molti si sono interrogati. Sembrano due mondi inconciliabili, ma, come insegna Cioran, “tutto ciò che non si può tradurre in termini di mistica non merita di essere vissuto”. E quindi…
A sette anni da Baby Gang, il regista napoletano Salvatore Piscicelli torna con un film insinuante e colto che non avrebbe sfigurato al festival di Cannes, magari in un ideale confronto con Le nozze di Deus del portoghese Monteiro. Anche qui un ultrasessantenne viene risvegliato all’eros dall’incontro con una ventenne che sconvolge la sua vita, ne ridimensiona l’ego e lo pone di fronte a una sorta di duro apprendistato (“Secondo un percorso di gioia e mortificazione simile a quello sperimentato da tutti i mistici per accedere alla liberazione”, per dirla con Piscicelli).
Non sorprenda il divieto ai minori di 18 anni. Distaccandosi da una sciagurata tendenza all’autocensura in voga nel nostro cinema, l’autore napoletano si spinge a un passo dall’hard – ma senza compiacimenti, un po’ come la Breillat di Romance – per restituire senza infingimenti sullo schermo “l’eccitato sbigottimento” vissuto dal protagonista.
Pur ispirandosi a nobili modelli cinematografici (Tristana di Buñuel) e letterari (Senilità di Svevo), Il corpo dell’anima possiede però una sua intatta originalità nel raccontare la storia di Ernesto e Luana. Lui è un ricco vedovo 64enne che vive in una grande casa nel quartiere Coppedé, a Roma: ispido, solitario, quasi “morettiano” nelle sue insofferenze, sessualmente spento, accetta di scrivere per un regista pubblicitario un film sulla vita di Teresa d’Avila. Lei è una ventenne di periferia presa per fare le pulizie di casa: goffa e ignorante, dotata di una sensualità spudorata ed eccentrica che risveglia i sensi dello scrittore. Nella penombra di quell’appartamento borghese, i due finiscono per intessere un caldo rapporto erotico, destinato a complicarsi quando Ernesto – riconquistato alla vita – esige da lei, sempre più promiscua e disinibita, una sorta di fedeltà.
Scandito dalla voce fuori campo dello scrittore, quasi un diario intimo, Il corpo dell’anima procede verso un mezzo lieto fine che rovescia la lezione dell’Angelo Azzurro: al contrario del professor Unrath, Ernesto non impazzisce, e anzi, sentendo arrivare la morte, ricompenserà la ragazza, nel frattempo sposatasi e diventata madre, trasferendole la nuda proprietà della casa. Ma non pensate a un film tetro o cerebrale. Ché anzi Piscicelli intesse la partitura di osservazioni umoristiche, addirittura di gag surreali, spesso molto divertenti, senza rinunciare al rigore dell’insieme. E se Roberto Herlitzka, così straniato, smunto e severo, è perfetto nel ruolo dello scrittore messo in scacco dalla fanciulla, l’esordiente Raffaella Ponzo si espone con impavida adesione ai rischi di un ruolo osé che avrebbe potuto bruciarla e invece no. Sarà perché nella vita è una seria studiosa di antropologia?